La questione è sorta a seguito della impugnazione presentata da un soggetto avverso la sentenza di condanna del Tribunale di Milano alla pena di 1 anno e 15 giorni di reclusione, per reati tributari, convertita in lavori di pubblica utilità.
Tra le prescrizioni previste per il condannato alla pena sostitutiva, come stabilito dall’art. 56-ter della legge 689/1981, vi è il divieto di espatrio.
Nel ricorso per Cassazione, si è sostenuto che l’applicazione automatica del divieto di espatrio viola il diritto alla libertà di movimento, garantito dall’art. 2 del Protocollo n. 4 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
A supporto della tesi e’stata richiamata, tra le altre, la nota sentenza della Corte EDU nel caso Vlasov e Benyash c. Russia.
La terza sezione della Corte con la sentenza resa all’udienza del 14/11/24 n.44347, nel dichiarare il ricorso inammissibile, ha confermato la legittimità del divieto di espatrio, sostenendo che le prescrizioni previste dall’art. 56-ter, tra cui il divieto di espatrio, non sono pene accessorie, ma costituiscono parte integrante della pena sostitutiva. Ne consegue, che la sua richiesta di applicazione implica l’accettazione di tutte le sue prescrizioni. Quelle dell’articolo 56-ter, tra cui il divieto di espatrio, rispondono, infatti, ad esigenze di prevenzione speciale, volte a mitigare il rischio di recidiva.
Diversamente, nel citato caso di Vlasov e Benyash, il divieto di espatrio si poneva in conflitto con il giudizio di non pericolosità che aveva permesso loro di usufruire della sospensione condizionale della pena.
Nel caso in questione, invece, il divieto di espatrio è funzionale alla pena sostitutiva, che persegue una duplice funzione: rieducativa e risocializzante, ma anche afflittiva.
Del resto, l’applicazione di questa misura richiede il consenso del condannato, il quale ha la possibilità di valutare la congruità della pena sostitutiva rispetto alla pena detentiva.